ComuniCulturaPrima pagina

Mi chiamo Tani

Gli orrori di un regime terroristico sono quanto di più lontano debba forgiare l’infanzia di un bambino.
«Boko haram» è l’organizzazione jihadista la cui traduzione letterale è «l’i-struzione occidentale è proibita», e che dal 2010 invade il nord della Nigeria, sfregiando il paese più popoloso d’Africa, sesto al mondo per giacimenti di gas naturale.
Violenti attacchi ai luoghi di raduno domenicali, ove solevano cantare e pregare i giovani adornati dai loro abiti colorati, che saranno per sempre macchiati di sangue. Scuole rase al suo-lo in una notte, accusate del crimine di insegnare «diavolerie occidentali». Mercati devastati in pieno giorno da un’inconsapevole bambina di dieci anni vestita di tritolo. Interi villaggi ricchi di storia completamente distrutti; civili stuprati, sgozzati insieme ai loro sogni e aspirazioni, sostituiti per sempre dal ferro, dal sangue e dalle urla.
Da questa terribile realtà, nel 2017, è fuggita la famiglia Adewumi. Ha rischiato la vita in nome dei propri ideali e di una speranza: il gruppo jihadista aveva infatti ordinato al capofamiglia, tipografo, di produrre dei manifesti per la loro rete; egli rifiuta, ma sa che questo gesto non passerà inosservato e che la sua famiglia è in pericolo. Riempie lo zaino di co-raggio e scappa insieme ai suoi cari, fino in America, grazie ad un volo turistico per Dallas che era riuscito ad assicurarsi prima che il regime vietasse anche questi.
Arrivati a New York, sen-za una casa né parenti sui quali appoggiarsi, chiedono aiuto ad un pastore lo-cale, che li indirizza verso un homeless shelter, un rifugio per senzatetto, dove si sistemano svolgendo la-vori umili e saltuari: la signora Adewumi si adopera come badante e donna del-le pulizie; il marito dopo vari tentativi come lavapiatti, riesce a trovare una certa stabilità come autista «Uber». Non esistono orari, giorni festivi né garanzie sindacali, ma sono disposti a tutto pur di non tornare nell’inferno nigeriano, pur di donare un fu-turo migliore al figlio Tanitoluwa, che all’epoca ha sette anni.
Il bambino, vivendo in comunità e supportato dall’aiuto di terapeuti e insegnanti, riesce ad accantonare per alcuni momenti della giornata gli orrori del suo passato, per far spazio a ciò che dovrebbe naturalmente essere la sua quotidianità: studio, gioco, spensieratezza.
È proprio in tale contesto che Tani (questo il diminutivo con cui lo chiamano i nuovi amichetti) osserva per la prima volta una scacchiera, e come se fosse attratto da una forza ingovernabile, giocherella passandosi il cavallo e l’alfiere tra le manine. «Perché non provarci? – dice raccontando oggi la sua esperienza –. Mi piaceva il modo in cui i pezzi si muovevano e come tutto può accadere»: la logica, la correttezza, le regole che tanto gli erano mancate nella vita reale, ora hanno finalmente il sopravvento, e lui ci si aggrappa con tutto se stesso.
Tani impara a giocare a scacchi nel rifugio grazie ad un suo insegnante, quando un allenatore professionista lo nota ed invia un telegramma alla madre, informandola della presenza di un club di scacchi nella propria scuola. Che meravigliosa opportunità: finalmente ha l’occasione di vedere il proprio bambino felice, permettergli di evadere dai ricordi negativi impregnati di sangue, dal costante rewind dei suoi compagni di scuola che muoiono in Nigeria.
Tuttavia i suoi sogni si infrangono al calcolo dell’ammontare della quota di iscrizione: 360 dollari, ol-tre ad una cospicua tassa mensile. Troppo, per loro che sono appena arrivati nel Paese e che stanno tentando di racimolare del denaro per l’affitto di un monolocale. È adesso che avviene il primo “miracolo”: l’allenatore spiega la situazione della famiglia Adewumi e la scuola ri-nuncia alla tassa. Tani inizia finalmente le sue lezioni e partecipa ai primi tornei. Dapprima torna a ca-sa senza vittorie, sconsolato: «Mamma, ho pregato di ottenere un trofeo. Perché Dio non ha risposto alle mie preghiere?». In lui c’è indubbiamente della genialità ed una forte attitudine ai ragionamenti logici: pur avendo iniziato a sette anni (età “tardiva” per gli enfants prodige del-le caselle nere e bianche), ha bruciato tutte le tappe. Affinché questo si trasformi in vero talento, però, va coltivato ed allenato con costanza. A questo serve la scuola.
Il primo maggio 2021, all’età di dieci anni, Tani diventa il 28esimo giocatore più giovane a raggiungere lo status di «Grand national master». Fa parte dell’1 per cento dei migliori giocatori di scacchi al mondo, battendo coetanei ricchi e addestrati nelle migliori scuole private dello Stato, adulti e veterani.
Il rifugio si riempie presto di trofei scintillanti. Di-ventato protagonista di un articolo sul «New York Times», la sua storia intenerisce ed appassiona migliaia di cittadini americani, che raccolgono 250mila dollari in favore della fa-miglia, assieme ad un appartamento con un canone d’affitto già pagato per un anno. Questo gesto, assolutamente inaspettato, è definito da lui «il secondo miracolo della vita».
A codesti miracoli fa riferimento il titolo del film che porterà sul grande schermo la sua storia: «Mi chiamo Tani… e credo nei miracoli». La «Paramount» ne ha già acquistato i diritti e vedrà all’opera Steven Conrad, sceneggiatore de «La ricerca della felicità» di Gabriele Muccino. La vicenda appare del tutto analoga alla pluripremiata serie Netflix «La regina degli scacchi», cui Tani si rivede molto, ma dalla cui sorte epiloga cerca di tenersi distante: il successo, almeno finora, non gli ha dato alla testa e la famiglia sta investendo il denaro raccolto in rifugi per senzatetto.
L’ultimo nodo da sciogliere rimane quello dell’immigrazione: mentre i suoi ‘‘avversari’’ possono viaggiare facilmente per gareggiare in competizioni internazionali, la famiglia di Tani preferisce non spostarsi dagli Stati Uniti finché la decisione sulla loro domanda d’asilo non passerà in giudicato, per paura di aver problemi durante il viaggio di ritorno. Nonostante siano grati all’America per l’immenso do-no ricevuto e le nuove prospettive di vita, l’augurio è quello di tornare, un giorno, in una Nigeria finalmente liberata.