La signora Martignon e il silenzio delle «ore morte»

IL RACCONTO. A fornire lo spunto è un libro che attira come un canto di sirene, capace di esercitare un’attrazione quasi morbosa. Il 24 aprile di quest’anno è morto lo scrittore Robert M. Pirsig nella sua casa del Maine. Aveva ottant’otto anni. Nei primi anni Settanta all’incirca apparve il suo libro «Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta ». Rifiutato da 121 editori, in pochi anni divenne il libro di culto per diverse generazioni di americani, fu tradotto in tutte le lingue conosciute e vendette più di cinque milioni di copie. Un viaggio su una motocicletta malmessa insieme al figlio undicenne Chris in mezzo a paesaggi incantati della grande America, un insistito tentativo alla ricerca dei valori universali del mondo. Libro stranissimo, pesante e fascinoso, elevato e banale, più volte sono stato tentato di ricacciarlo nel caos della mia biblioteca, altrettante volte l’ho ripreso come attirato da non so quale canto di sirene. Conosco pochi libri come questo, sulle dita di una mano, capaci di esercitare un’attrazione che non esiterei a definire morbosa. Chris divenuto adulto fu ucciso da due balordi di colore che volevano derubarlo all’uscita di un centro Zen. Lo scrive l’autore nella postfazione del libro, e da filosofo si chiede e chiede ai lettori dov’è andato ora Chris, e se il Chris del peregrinare nel vento e sotto gli scrosci di pioggia granulosa, delle soste nei grandi parchi e delle nottate nei sacchi a pelo, il Chris delle stazioni di servizio abbandonate e delle scomode locande del percorso sia veramente esistito o sia stato un’ombra amata della sua fantasia. La signora Martignon venne a stare nel nostro paese negli ultimi sei mesi della seconda guerra mondiale. Scomparsi gli automezzi militari e le ronde di notte, le messe in piazza del cappellano militare e il puzzo persistente di carburanti nelle vie che per quattro anni aveva soppiantato il sentore di granaglie e di cotogne messe a maturare, si ritornava ora alla vita di prima, restava soltanto qualche militare, ma già in abiti borghesi, che la mattina si affacciava al largo balcone del Quartiere Generale parlando con i passanti, e sembrava un ultimo rampollo d’una stirpe che si estingue per morbo ereditario. La signora possedeva una casa in via San Vito, un patio l’abbelliva con due sedili di granito e un gelsomino secolare che da una giara rotta s’innalzava fino ai nidi di passeri sotto le tegole rosse. In estate le rondini nidificavano sotto la soletta del balcone di pietra arenaria. Aveva perso il marito da dieci anni, lei mezzosoprano e lui primo violino al «Massimo» di Palermo, una vita vissuta nei più bei teatri d’Europa. Entrambi amavano, quando se lo potevano permettere, il silenzio delle ore morte, l’eco del martello sull’incudine, il raglio degli asini, lo schiocco ligneo dei telai domestici, il canto dell’aia del contadino che sprona i muli dai ferri roventi nella trebbiatura all’antica. Il marito era stato seppellito nella sua tomba di famiglia ai Rotoli di Palermo, ma la signora Martignon sosteneva un’idea, fissa per giunta, ed era che seppellire una persona cara è come seppellirla in tutti i cimiteri del mondo, e questa teoria preludeva in certo qual modo, malgrado l’abisso di tempo, di spazio e di scienza, alle idee del filosofo scrittore Robert M. Pirsig, che sarebbe vissuto decenni dopo e avrebbe scritto l’opera per la quale è andato famoso. La signora si recava al cimitero nostro del Molo e vi portava rose e gladioli azzurri e li deponeva su lapidi scelte a caso, e senza saperlo anche sulla tomba di Chris che non era ancora morto, anzi che non era ancora nato. Ecco come è possibile che lembi di vite vissute possano espandersi a traversare le sabbie mobili del tempo e dello spazio. Tutte queste cose la signora Martignon le sentiva dentro ma non le sapeva esprimere, perché ci sono stati d’animo che prediligono il silenzio come dimora abituale, così come il condor predilige le vette delle Ande sulle quali si libra trasportato dalle correnti senza un verso o un grido, e senza sapere perché lo fa. Dentro di sé avvertiva che la morte non è la fine di tutto, una vita vissuta comunque nel trascorrere imperterrito del tempo, l’avvicendarsi di stagioni, i sobbalzi di umore, cose belle e cose brutte, non possono non lasciarsi dietro una bava di lumaca, una scalfittura nel tappeto ruotante dell’esistenza. Erano le tesi di Robert M. Pirsig, l’appassionato di motociclette, di bielle, di punterie e di candele, in realtà l’appassionato di ciò che siamo, di ciò che significa per noi stessi e per gli altri il nostro passare su questo pezzo di mondo. Con più di mezzo secolo di anticipo. E in quel suo tempo la donna assaporò ciò che in fondo andava cercando: la sobria pienezza d’una vita semplice e il ricordo non tormentoso del tempo passato. Andava a sedersi nelle botteghe del calzolaio, del falegname, del fabbro ferraio, aspirava l’odore di cuoio nuovo, di legno stagionato, perfino degli zoccoli toccati dal ferro rovente. Sedeva con le donne all’ombra dei cortili, le aiutava a stratificare con l’alloro i fichi secchi per l’inverno. Sui sedili di pietra del belvedere, i bastioni, si beava della vista delle Egadi in certi tramonti d’estate, tre conchiglie scure adagiate sul limite dell’orizzonte. Al volo ragionato dei passeri dei tetti, ancora per poco signori del cielo, preferiva la danza orgiastica delle rondini, il loro volo libero da regole, il loro scomparire improvviso quando il cielo s’addensa negli acquazzoni equinoziali. Amava anche gli uccelli della notte, le civette, le upupe, i pipistrelli che chiamava le rondini delle notti. Il verso dell’upupa le ricordava il mai dimenticato Foscolo. Anche per lei ci fu un’ultima volta, un migrare al termine della stagione al di là delle nubi indorate dal sole. Molti paesani si chiesero dov’era finita, io proprio non lo so, non so che cosa sia successo, non so che cosa… (In memoria di Robert M. Pirsig) ************ L’autore Salvatore Lo Curto è nato a Santa Ninfa nel 1928.