La «linea d’ombra» che stiamo attraversando
Cambieremo. In realtà siamo già cambiati. Cambiati dentro, nel profondo. E cambierà, sta già cambiando, il «paesaggio sociale». La più grande emergenza che questo Paese si sia trovato ad affrontare dal secondo dopoguerra, quindi negli ultimi settanta e passa anni, costituisce e costituirà per molti, soprattutto per le generazioni più giovani, una sorta di battesimo del fuoco. Quasi l’attraversamento di una conradiana «linea d’ombra». Finirà il tempo della spensieratezza. Ed inizierà un nuovo tempo: più maturo, più consapevole, più responsabile.
Sarà come essere passati in mezzo ad una guerra. O, per richiamare ancora Conrad, essere sopravvissuti ad un equipaggio decimato dalle febbri malariche. Esserne usciti vivi, insomma. Ché questo, poi, è il desiderio di ciascuno, di tutti, su una nave infetta o in una guerra: uscirne vivi. Per ricominciare. Per riappropriarsi di una vita improvvisamente confiscata. Confiscata dalla paura. Dalla paura dell’ignoto, del dolore, della malattia, della morte. La paura che tutti ci rende esposti, fragili, sgomenti. Quella paura che atterrisce, che silenzia le parole e fa “parlare” solo gli occhi.
Il «paesaggio sociale» ne uscirà stravolto. Più ancora di quello economico. Perché ancora più scavati saranno i segni delle ferite che porterà con sé. Assieme a nuovi modelli: di sviluppo economico, di salute pubblica, di organizzazione del lavoro, di socialità.
La socialità, già. Se non fosse per il rispetto che si deve alle vittime dell’epidemia (chi crede, preghi per le loro anime e per i loro familiari rimasti; chi non crede, gli dedichi un rispettoso pensiero); se non fosse per il rispetto per le vittime – si diceva – si potrebbe sostenere che la socialità è la più colpita dal «coronavirus». Non è un paradosso, semmai un contrappasso terribile, per l’era più «social» di sempre: l’era delle interconnessioni, dei viaggi, degli spostamenti agevoli. L’era in cui ciascuno di noi è, prima di tutto, i rapporti sociali che intesse. Quella socialità che non riguarda solo (come spesso si è ripetuto, anche in questi giorni) i giovani. Riguarda tutti, riguarda anche gli anziani, quantomeno quelli non alle prese con seri problemi di salute e quindi impossibilitati a godere (sì, «godere» è il verbo più adatto) dei benefici della socialità.
Ecco, in questo passaggio di fase, in questo momento che davvero è buio (giusto per citare, come altri hanno fatto, Churchill), in questo frangente della nostra vita in cui la paura ci attanaglia, occorre uno scatto, un gesto di coraggio (da non scambiare per un atto di incoscienza), uno sforzo suppletivo. Lo stesso coraggio, lo stesso sforzo supplementare di quei medici ed infermieri che, in prima linea, come in una guerra, provano a salvare quante più vite possibile.
Ne usciremo (chi ne uscirà) fortificati. Ad una condizione: che prevalga lo spirito di comunità e non la caccia all’untore. Perché lo spirito di comunità è ciò che, dalla nascita dei primi gruppi organizzati, salva gli esseri umani dall’estinzione. Poi, quando ne usciremo, chi ne uscirà non si dimentichi (per echeggiare Primo Levi) dei «sommersi», di coloro che non si sono «salvati».
Vincenzo Di Stefano (Vignetta di Pino Terracchio)