Alle elezioni del maggio 1968 la Valle si tinse di rosso

Siamo a 5 mesi dal terremoto e il nostro viaggio continua nel cuore delle emergenze della Valle. Roma è sempre più lontana, i riflettori della televisione sono spenti. Aspettando le baracche si vive nelle tende e sta per arrivare l’estate e il grande caldo. Maggio 1968 è il mese delle elezioni nazionali – domenica 19 e lunedì 20. È una campagna surreale: i politici vengono a promettere la ricostruzione tra le tende e le poche baracche. Esplodono rabbia e contestazioni. Sarà un voto di protesta: la valle si colora di rosso. Ci sono, sulla carta, 62 miliardi per la ricostruzione, ma non c’è un solo piano. Anzi in molti paesi non si trovano i terreni per posare le baracche e sulla scelta di queste aree ha già messo le mani la mafia. Così a Gibellina le prime baracche sorgono al Villaggio Rampinzeri, a 9 km dal paese distrutto, in piena campagna. Perché? Non c’è il pronto soccorso, non ci sono i bidoni per i rifiuti, mancano le docce, ci sono le aule per le scuole ma non ci sono i banchi! Un villaggioghetto dove i “non desiderabili” o gli “ammaccati”, cioè i malati di tubercolosi e i conviventi vengono relegati nella parte bassa del villaggio. Ed è ancora peggio al Villaggio Iri di Madonna delle Grazie. Né farmacia, né medico, né negozi, né scuola. C’è solo la stazione dei Carabinieri. C’è una commissione per l’assegnazione delle baracche ma non si riunisce e così vince la regola del clientelismo: ogni commissario assegna, direttamente, le baracche ai suoi “clienti”. Nella tendopoli “Belvedere” di Castelvetrano, cinque mesi dopo, sopravvivono 1.300 terremotati di Gibellina, Salaparuta e Poggioreale. Fa già caldo: passeranno tutta l’estate in tenda con gravi problemi igienici (pidocchi e topi), con soli 32 gabinetti, 16 docce (spesso senz’acqua) e sette rubinetti (l’acqua usciva a gocce e arrivava da una stazione di benzina). Niente disinfestazione: mancava pure il terribile «ddt». L’ambulatorio era in tenda e non si potevano fare le visite. Mancava di tutto: le garze, le forbici, le pinzette, l’apparecchio per far bollire le siringhe. Non c’erano i vaccini contro il tifo. Una tendopoliinferno dove si moriva di caldo. Anche a Partanna la gente viveva nelle tende in promiscuità e in un indecente affollamento. Si aspettavano 1.800 baracche per 3.600 alloggi. Erano promesse per giugno, ma non sarebbero bastate per tutti. La popolazione, in assemblea, protesta e chiede «l’esproprio dei terreni necessari combattendo i favoritismi clientelari». Anche a Salemi solo tende e tanti ritardi per la posa delle baracche. Così cinque mesi dopo. A migliaia nelle tende, le baracche di legno o di lamiera ritardano, non partono i lavori per la demolizione degli edifici pericolanti (case e chiese) dichiarati da abbattere con tanto di croce. La ricostruzione è sempre lontana, non vengono definite le aree sismiche, non si lavora a piani regolatori ma già avanzano i primi e nefasti progetti di smembramento delle comunità. I contadini dalle tende, con qualsiasi mezzo, tornavano sui campi per coltivarli. Ma non c’erano i ricoveri per gli animali, né per il fieno e la paglia. Nessuno sapeva dove portare il grano, le olive, le mandorle. La protesta cresceva. In questo clima si vota. E i “belicini” si ribellano.